LA CORTE COSTITUZIONALE:  FAMIGLIA, CONVIVENZA ..RELAZIONI AFFETTIVE…SONO CONCETTI NON INDIFFERENTI AI FINI DELLA LEGGE PENALE


I concetti di famiglia e di convivenza sono distinti dalla relazione affettiva e non sono analoghe…anche e specie ai fini penali.


In  un processo per  atti persecutori (il cosiddetto stalking)(612 bis cp) per una serie di condotte abusive compiute nei confronti di una donna con cui l’imputato intratteneva da qualche mese una relazione affettiva, e che frequentava abitualmente la sua casa familiare, il giudice prospettava  riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave reato  di maltrattamenti in famiglia.(572 cp). Ciò sulla base di un orientamento della Corte di Cassazione che considera integrato questo reato in presenza di condotte maltrattanti compiute in un “contesto affettivo protetto”, caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita”.


In un giudizio recentissimo della Consulta (a cui il proc.to era giunto  per questioni processuali..ossia possibilità di chiedere il rito abbreviato..…_) concluso con sentenza n. 98 del 2021  pubblicata il 14 maggio 2021 (https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2021:98) si afferma tra l’altro che: 


- il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone, per quanto qui rileva, che le condotte abusive siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia”, oppure di una persona “convivente”; e che, invece, il reato di atti persecutori aggravati prevede che le condotte vengano compiute nei confronti di persona che sia o sia stata legata all’autore da una “relazione affettiva”. 

-“ la stabilità della relazione affettiva in un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire» sembrerebbe essere il discrimen tra le due situazioni di fatto che attivano le diverse conseguenze giuridiche e… tuttavia “una recente sentenza della Corte di cassazione – invero successiva all’ordinanza di rimessione – ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).

-“ La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.”

-E’ quindi fondamentale l’inquadramento giuridico perché - a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro - la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui “convivente”. (https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20210514132323.pdf)

 

-“E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.”

-“.. ai fini della “qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).”

“Il divieto impedisce – ha proseguito la Consulta – di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore. “ (vd comunicato Consulta)

Ed il giudice non può applicare analogicamente  la legge penale in situazioni non riconducibili al significato letterale delle espressioni usate dal legislatore 

“Ciò a garanzia sia del principio della separazione dei poteri, che assegna al legislatore – e non al giudice – l'individuazione dei confini delle figure di reato; sia della prevedibilità per il cittadino dell’applicazione della legge penale, che sarebbe frustrata laddove al giudice fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello desumibile dalla sua immediata lettura.”


 Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981).”

 

E su questo ce n’è da dire!!

Pasquale avv.Lattari



METTIAMOCI ALLA PROVA.
Le persone sottoposte al procedimento di messa alla prova: metodologie e tecniche tra lavoro di pubblica utilità e mediazione penale.
- webinar formativi -

nei tre eventi - del 10, 17 e 24 maggio 2021 -  organizzati dall'Ufficio di esecuzione penale esterna di Latina in collaborazione con il Comune di Aprilia, con  l'Ufficio di Mediazione e Giustizia riparativa  di Latina, con  il CSV(centro di servizio per il volontariato) Lazio e con l'Associazione Familiari Vittime della Strada si trattano gli argomenti collegati al procedimento di messa alla prova (ex legge 67 del 2014).
Gli eventi hanno ricevuto il riconoscimento da parte di ordini professionali (avvocati ed assistenti sociali) per i crediti formativi. 


La Giustizia riparativa è il tema di fondo degli incontri formativi.

 L'Ufficio di mediazione penale e giustizia riparativa di Latina - oltre all'attività concreta nei procedimenti penali - intende  contribuire con l'organizzazione di tali eventi (che seguono altri analoghi)  al diffondersi della cultura della giustizia riparativa la cui filosofia e strumenti sono estensibili a tutti i conflitti personali, intersoggettivi e sociali che coinvolgono le persone. 

"la giustizia riparativa -prodotto culturale dell'uomo e per l'uomo - ha necessità di essere conosciuta e divulgata per costituire - sempre più compiutamente - con audacia e coraggio una "giustizia umanistica" una "giustizia dell'incontro", una cultura valida per ogni conflitto." 
(La giustizia riparativa - Key editore 2021 pg. 295)




























 

   


 Per il licenziamento economico ingiustificato ora c’è il reintegro: la Consulta ha dichiarato in costituzionale sul punto la modifica dell’art.18 Statuto lavoratori della legge Fornero.

 

E’ stata pubblicata il 1 aprile 2021 la sentenza della Consulta n. 59  che assesta altro colpo alla riforma Fornero dell’art.18 Statuto dei Lavoratori.

 

Il giudice del lavoro di Ravenna e la Corte costituzionale – giudice relatore Sciarra – sono binomio che – di nuovo – ampliano varchi e scenari alla tutela del lavoratore.

Già con la sentenza 178 del 2015 – proprio il Giudice Sciarra – su giudizio promosso in via incidentale sempre dal giudice del lavoro di  Ravenna - aveva innovato la giurisprudenza della stessa Consulta circa il blocco contrattuale nel pubblico impiego dichiarando  illegittima la proroga ulteriore in violazione art.39 Costituzione sulla libertà sindacale.[1]

 

Con la recente sentenza 59 è stata dichiarata incostituzionale la modifica ad opera della  legge Fornero (legge 92 del 2012) dell’art. 18 statuto lavoratori (settimo comma) in punto di reintegra nel posto di lavoro del dipendente a seguito di licenziamento economico ingiustificato.

 

I contratti a tutele crescenti introdotti dalla Fornero avevano previsto diverso trattamento per i licenziamenti disciplinari rispetto a quelli economici quando sia accertato dal giudice l’insussistenza del fatto su cui il licenziamento si fonda.

 

Infatti per i licenziamenti disciplinari la legge ha mantenuto il regime preesistente dell’art. 18 statuto lavoratori  ossia la reintegrazione nel posto di lavoro per il lavoratore;   invece per i licenziamenti economici è stata prevista la scelta - ad opera del giudice - tra reintegra e corresponsione di un’indennità nella misura prevista dalla legge Fornero.

Con tale distinzione: 

“Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego» anche mediante

l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative

controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge citata).

All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015. A decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele.

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti

occupati, si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum). L’importo minimo, invalicabile, è di cinque mensilità.

Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del danno patito nel periodo tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità sostitutiva, che già risolve il rapporto di lavoro.

L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede, inoltre, una tutela

reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce

l’applicazione ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia pure in diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti.

La tutela reintegratoria attenuata, invocata nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni (l’aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum). Anche in questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo,

allorché il giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti intimati senza giustificazione «per

motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di

«manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

 

Ma tale differente tutela  del lavoratore tra le due ipotesi di licenziamento – disciplinare ed economico – nell’ipotesi del settimo comma art. 18 Stat. Lavoratori è stata dichiarata incostituzionale per violazione art. 3 Costituzione. 

 

Il giudice di Ravenna “ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 41, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), «nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. [giustificato motivooggettivo], “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al 4° comma dell’art. 18 (reintegra)».

 


Ebbene tale aspetto dell’art. 18 Stat. Lavoratori è stato dichiarato incostituzionale:

 

“ Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e

applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente»

(sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24

della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi.”

 

Tale discrimen trattamentale  è peraltro viziato anche da irragionevolezza  perché non sono previsti parametri certi per il giudice al fine della determinazione proprio rimedi idonei a garantire la compensazione al lavoratore licenziato.

 

11.– Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò

altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.

Anche da questo punto di vista, si ravvisa l’irragionevolezza censurata dal Tribunale di Ravenna.

12.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo

periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati dal rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20

maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

 

Lattari Pasquale

 

 



[1] A seguito della partecipazione a tale giudizio il volume Breviario di diritto sindacale dopo la sentenza della Corte Costituionale n. 178 del 2015(vd https://pasqualelattari.blogspot.com/p/biografia.html  e https://curciostore.com/libreria/breviario-di-diritto-sindacale/)  ad evidenziare  l’importanza della decisione in ambito di diritto sindacale nel pubblico impiego.

 

“Gregge privo di pastore…” le leggi regionali sui servizi sociali sono spesso dichiarate incostituzionali!!



“Gregge privo di pastore…”le   leggi regionali sui servizi sociali sono spesso dichiarate incostituzionali!!  

                                   

E’ di qualche giorno fa la notizia – chiaramente passata del tutto inosservata – che la Corte costituzionale con sentenza n. 9 del 2021 ha dichiarato incostituzionale una legge regionale (Abruzzo) che – nell’assegnazione delle cd case popolari  – prevedeva  un meccanismo premiale (maggior punteggio) per le persone con  residenza prolungata per almeno dieci anni in comuni della Regione. 

La sentenza interessa - non per il caso concreto - ma per i principi evocati che riguardano tutti i servizi sociali. 

Afferma la Corte: “che i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio (ex plurimis, sentenze n. 281 e n. 44 del 2020, n. 166 e n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013 e n. 40 del 2011).”

 

E la normativa riguardante i servizi sociali  – in cui rientra l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica - é “finalizzata a soddisfare un bisogno della «persona in quanto tale che, per sua stessa natura, non tollera distinzioni basate su particolari tipologie di residenza». 

È il «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, secondo comma, Cost.) la bussola che deve orientare l’azione del legislatore, sia statale sia regionale, specie quando è chiamato a erogare prestazioni e servizi connessi ai bisogni vitali dell’individuo, come quello abitativo. Ogni tentativo di far prevalere sulle condizioni soggettive e oggettive del richiedente valutazioni diverse, quali in particolare quelle dirette a valorizzare la stabile permanenza nel territorio, sia nazionale sia comunale, deve essere quindi oggetto di uno stretto scrutinio di costituzionalità che verifichi la congruenza di siffatte previsioni rispetto all’obiettivo di assicurare il diritto all’abitazione ai non abbienti e ai bisognosi.”(Sentenza n. 9 del 2021) 

 

Non è la prima volta che le leggi regionali privilegiano – l’intento politico/elettorale è chiaro!! – cittadini italiani radicati sul territorio al cospetto della restante popolazione o di stranieri (si vedano leggi regionali scrutinate con le sentenze della Consulta suindicate).

E ciò riguarda  tutti i diversi servizi e prestazioni sociali (dall’assegnazione degli alloggi di edilizia pubblica sino all’ammissione agli asili nido (vd sentenza 107 del 2018))[1]

I valori giuridici che hanno ispirato le norme regionali  – la residenza regionale oltre un determinato termine  è privilegiata al pari dei bambini figli di residenti… (la semplificazione è chiaramente estremizzata!!) – sono ictu oculi contra ius…

Le norme regionali, prima ancora che la Costituzione, contraddicono lo ratio e la vocazione universalistica dei servizi sociali di garantire pari opportunità ed  evitare discriminazioni (art. 1, comma 1, della legge n. 328 del 2000)

I principi determinati della Consulta - nonostante ormai siano costanti nel tempo - sono continuamente  disattesi dai legislatori regionali.  

Che formalizzano tali principi discriminatori in norme valutate, votate ed approvate  da assemblee regionali legislative, e vigenti valide ed efficaci sino al giudizio di costituzionalità.[2][2]

Al riguardo la Consulta è sempre impietosa nelle valutazioni di tali norme regionali al cospetto della Costituzione  ribadendo la necessità di  coerenza delle norme regionali ai principi generali: coerenza che è un carattere strutturale del diritto e dell’ordinamento di un paese civile!!

Per tutte si ricorda un’ efficace metafora usata dalla Consulta che stigmatizza:  il valore essenziale dell'ordinamento giuridico di un Paese civile nella coerenza tra le parti di cui si compone; valore nel dispregio del quale le norme che ne fan parte degradano al livello di gregge privo di  pastore: canone di coerenza che nel campo delle norme di diritto è l'espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3.(costituzione)(sentenza Consulta 204 del 1982 ripresa dall’ordinanza 151 del 2019) ).

L’assenza di coerenza con i principi costituzionali da parte delle Regioni in materia di servizi sociali ripetuta e reiterata (si vedano le reiterate pronunce della Consulta) suscita diseguaglianze; ed è  fonte di discriminazione.[3]

 

E più di  qualche spunto di riflessione andrebbe attivato.

Pasquale avv.Lattari



[1] La Consulta con la sentenza 107 del 2018  ha sancito l’incostituzionalità della legge regione Veneto anche per violazione art. 31 cost.ne: “Inoltre “è fondata infine anche la questione riferita all’art. 31, secondo comma, Cost., in base a cui la Repubblica «[p]rotegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». La norma impugnata fissa un titolo di precedenza che tradisce il senso dell’art. 31, secondo comma, Cost.: essa, cioè, non incide sul quantum e sul quomodo del servizio degli asili nido ma ne distorce la funzione, indirizzandolo non allo scopo di tutelare le famiglie che ne hanno bisogno ma a quello di privilegiare chi è radicato in Veneto da lungo tempo. La norma impugnata, dunque, persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché crea le condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizio educativo dell’asilo nido.”

[2] Il giudizio circa la questione di costituzionalità di norme regionali nel caso de quo è stato sollevato con ricorso in via principale a seguito di determinazione del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano…e se anche il Consiglio dei Ministri – magari per stessa visione politica e condivisione degli stessi valori politici e giuridici delle leggi regionali !!! – non solleva la questione di costituzionalità contro la legge regionale…occorre attendere i “tempi”  lunghi ed accidentati (il giudice deve valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della quaestio)  di un giudizio di costituzionalità sollevato con una questione incidentale da un giudice davanti alle quali i cittadini hanno una controversia che riguarda la legge da applicare..(?!?)

[3] E’ l’espressione usata dalla  sentenza n. 9/2021ultima parte.  

L’avvocato - nel processo di famiglia - è difensore del padre o della madre ma è anche difensore del minore. Qualunque sia la sua posizione processuale.

“Nel processo di famiglia l’avvocato è difensore del padre o della madre; ma certamente è anche difensore del minore. Qualunque sia la sua posizione processuale”

 

Questo afferma una ordinanza in cui mi sono imbattuto durante una ricerca giurisprudenziale per un caso specifico.

Ordinanza che – nonostante sia del 2016[1] - è quantomai attuale e costituisce  MEMENTO  (per lo scrivente prima che per chi legge)  circa  il delicato il ruolo dell’avvocato nei procedimenti di in cui sono coinvolti minori.

 

Ai lettori – specie ai colleghi – si paleseranno i tanti proc.ti di famiglia in cui i minori anziché beneficiari sono vittime della conflittualità giudiziaria ( e chi è che non ne ha esperienza!!). Ma le restanti parti dell'ordinanza sono chiarissime!!

 

“Al cospetto di una litigiosità esasperata dei genitori, avente ad oggetto finanche una res litigiosa inesistente e frutto, dunque, del solo desiderio di creare nuove occasioni di scontro, ove soprattutto si tratti di micro-conflittualità, gli Avvocati del processo hanno non solo il dovere ma invero l’obbligo di svolgere un ruolo “protettivo” del minore, arginando il conflitto invece che alimentarlo. Ciò alla luce di una interpretazione sistematica ed evolutiva dell’Ordinamento vigente, come risultante per effetto delle normative sopravvenute nel tempo.”

 

E tra queste rilevanti l’ordinanza ne cita diverse; ma anzitutto premette: 

 

“Giova muovere dalla primaria considerazione che l’Avvocato svolge un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.) ed opera nel contesto di un ordinamento (quello forense) la cui primaria funzione è quella di «garantire la tutela degli interessi individuali e collettivi» sui quali incide la sua attività (art. 1, comma II, lett. a, legge 31 dicembre 2012 n. 247) assicurando, dunque, anche la realizzazione di interessi pubblici primari. Al lume della nuova legge professionale, l’Avvocato è esso stesso parte del servizio pubblico di Giustizia, onerato del dovere di proteggere anche gli interessi pubblici che “incontra” in occasione del processo cui prende parte. Nella doverosa rappresentanza degli interessi egoistici difesi deve, dunque, anche farsi carico di assistere e presidiare gli “interessi altri” coinvolti, nei casi in cui l’Ordinamento gli affidi questo ruolo e questa responsabilità. Lo testimonia espressamente il nuovo codice deontologico forense ove, proprio all’art. 1, è previsto che l’Avvocato «vigila sulla conformità della legge ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea sul rispetto del medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». In alcuni settori in particolare, l’Avvocato diventa, dunque, esso stesso uno strumento di tutela degli interessi prioritari in gioco senza che ciò comporti una rinuncia al suo suolo di “parte del processo”.  Con specifico riguardo al procedimento in cui coinvolti minori, è sempre il Codice Deontologico forense a delineare una funzione del difensore di tipo protettivo.”

Infatti 

-l’Avvocato non può ascoltare il minore di età o avere con questi colloqui sulle circostanze oggetto di controversie genitoriali (art. 56 codice deontologico)

e soprattutto

-Il minore  assume la qualifica di parte “sostanziale” del processo in cui è coinvolto (Cass. Civ., Sez. Un., 2238 del 2009; Corte Cost. n. 83 del 2011)

Pertanto “l’Avvocato non assiste mai uno dei genitori “contro” il minore ma, semmai, in favore e nell’interesse “del minore”. Il minore, dunque, non è un “antagonista” processuale né rispetto all’attore, né rispetto al convenuto. Al contrario, nelle dinamiche avversariali (formate dalle posizioni attorea e di convenuto), i figli sono in posizione “neutrale” e gli Avvocati, assumendo la difesa dei loro genitori, si impegnano a proteggerli e ad operare anche nel loro interesse.”

Il valore “protettivo del minore” che deve ispirare anche l’attività dell’Avvocato  si desume anche:  

-dalle “Linee Guida del Comitato dei Ministeri del Consiglio d’Europa sulla Giustizia a Misura di minore”... “Ebbene, in questo testo europeo, tra l’altro, si richiamano le autorità giudiziarie e tutti i professionisti in contatto con i minori (inclusi gli Avvocati) affinché «in tutti i procedimenti giudiziari i minori siano protetti da eventuali pregiudizi, tra cui intimidazioni, rappresaglie e vittimizzazione secondaria».”

- dal Diritto Ue e le convenzioni internazionali convergono nell’affermare che «in tutti gli atti relativi ai minori (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente» (v. ex multis, art. 3 par. 1, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo; art. 24, par. 2. della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). 

Alla luce di tutto quanto sin qui evidenziato, reputa questo Tribunale che quando l’Avvocato stipula il contratto di patrocinio con un genitore, per assisterlo in un procedimento minorile in cui coinvolti i figli, di fatto perviene alla conclusione di un contratto «ad effetti protettivi verso terzi» ove terzi sono i figli, secondo il modello negoziale collaudato in settori affini, come quello sanitario.”[2]

“In altri termini, nella doverosa assistenza del padre o della madre, l’Avvocato deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite.”

E soprattutto  va evidenziato che in presenza di tale dovere la violazione da parte dell’Avvocato comporta necessariamente una 

responsabilità, tant’è che: 


“Ne consegue ancora che l’Avvocato può essere, per l’effetto, destinatario di un rimprovero nelle sedi competenti (in primis quella della responsabilità civile) per condotte attive od omissive che abbiano contribuito a causare un nocumento al minore, per effetto della omessa o mancata protezione dell’interesse superiore del fanciullo.” 

C’è molta materia per le riflessioni circa la deontologia professionale…e non solo!!

Pasquale avv.Lattari

 

 

 

 

 



[2] La giurisprudenza ( Cass. civ. Sez. Unite 2008, n. 577 ed altre ) definisce ed inquadra nel contratto con effetti protettivi "a favore del terzo" il ricovero ospedaliero tra la partoriente e l’ente ospedaliero: l’ente è obbligato – per tutte le cure necessarie e prestazioni necessarie – non solo verso la madre ma anche nei confronti del nascituro e proteggerlo da ogni pregiudizio.La  Cass. civ. Sez. Unite, 2002, n. 9346 fa riferimento  al contratto ad effetti protettivi a favore del terzo anche  alla responsabilità da “contatto sociale” dell’istituto scolastico che stipulando il rapporto con i genitori a seguito iscrizione ed ammissione del minore/allievo, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale con obbligo di protezione "a favore del terzo" minorenne dai danni procurati da sé stesso. 

 


Giustizia riparativa. Una giustizia"umanistica". Una cultura dell' "incontro" per ogni conflitto

Il testo inaugura la collana "PERCORSI DI GIUSTIZIA RIPARATIVA"


di seguito il prologo del testo.



s.t.D.

 

 

 “de te fabula narratur”

ossia

“E’ di te che si parla in questa favola”

 

Orazio

 

 

 

PROLOGO  

 

Pensare la giustizia è esplorare una problematica umana essenziale,[1] vasta quanto il mondo[2], antica e  profonda[3] quanto l’uomo e la sua coscienza. 

 

L’idea di giustizia è insita in tutte le riflessioni sull’uomo e sul suo vivere sociale,  ha infiniti significati e sfaccettature, uno per ciascun ambito d’investigazione.  

 

La Giustizia in generale  indica un’armonia, un congruenza, una proporzione: una previsione “giusta”, una misura “giusta”, un considerazione “giusta”.

 

La Giustizia viene pensata  al rapporto con Dio: Dio stesso è Giustizia  e giusti sono gli uomini che seguono i suoi comandamenti.

 

La Giustizia è una virtù morale[4],  un principio dell’interiorità o della coscienza: l’ aspirazione al bene,  l’attitudine ad essere retti, equi, onesti, integri, probi..appunto “giusti”.

 

La Giustizia è propria delle relazioni dell’Uomo.

L’idea della Giustizia nell’antichità  - molto più che oggi - pervadeva profondamente  la vita sociale e distingueva la barbarie dalla civiltà: Ulisse che sbarca nel paese sconosciuto dei Ciclopi afferma: “chi saranno gli abitanti di questa terra? Saranno malfattori e dei selvaggi senza Giustizia oppure onoreranno lo straniero e temeranno gli dei”. (Odissea cap. VI) 

 

La Giustizia  è legata al diritto ed  è - ab origine –  un binomio forte ed indissolubile: la giustizia è “il potere di realizzare il diritto  con provvedimenti aventi forza esecutiva, ed esercizio di questo potere” [5] e tuttavia, al contempo,  se ne distingue diventandone termine di riferimento e comparazione. 

 

Giustizia etimologicamente  deriva:  

-dal greco dike che è giustizia ma anche azione giudiziaria applicativa della legge

-dal latino iustitia da ius – diritto, legge, - con l’aggiunta del suffisso per renderlo sostantivo: giustizia e diritto per i romani coincidevano ed erano sinonimi.

 

E proprio alla Giustizia,  in relazione all’ applicazione giudiziale della legge,   fa riferimento l’ Iconografia tradizionale: la Giustizia è raffigurata da una donna con la bilancia segno di ponderazione ed equilibrio e la capacità di stabilire la ragione ed il torto; con la spada simbolo della punizione per i colpevoli; con la benda sugli occhi simbolo di imparzialità e distacco (la legge uguale per tutti).

E’ il canone della giustizia punitiva o retributiva che sin da Hammurabi - l’occhio per occhio e dente per dente –  giunge  sino a Noi: restituisce al “male” del reo l’“altro  male” della pena. 

 

Il sistema penale retributivo – comprensivo del sistema giudiziario e penitenziario -  patisce molte difficoltà ed insufficienze e la pena non costituisce risposta adeguata ed efficace.

 Il reo punito viene allontanato dalla società, assicurando momentanea sicurezza e tacitando il bisogno di vendetta collettiva ma,  in concreto, la pena sempre più raramente ha finalità rieducativa del reo; anzi  spesso la reclusione accentua la devianza. 

E soprattutto la pena ed il sistema retributivo non restituisce alcunchè alla vittima.

 

La giustizia riparativa è una dinamica costruttiva e relazionale di risposta agli effetti distruttivi del reato per le relazioni personali e sociali che - appunto riparando o restaurando il rapporto rotto dal reato – intende riparare il male, rivalutare il ruolo della vittima, recuperare il reo e coinvolgere entrambi insieme alla società per risolvere le conseguenze causate dal reato.

 

A tale visione della giustizia retributiva da qualche decennio si è  affiancata la Restorative Justice tradotta in Italia da con il termine di giustizia riparativa o anche giustizia  restaurativa.[6].

Nel sistema penale – per i minori dal 1988 e per gli adulti dal 2014 – è stato introdotto il procedimento di messa alla prova che “irroga” al reo un progetto costruttivo con il quale può rispondere alle conseguenze del reato. Ed all’interno del percorso le vittime possono avere spazio di accoglienza, ascolto (peraltro di recente spazi nuovi nel processo penale sono riservati alle vittime particolarmente vulnerabili dalla normativa su input di quella internazionale). Il reo può confrontarsi con la vittima – ove questa presti il consenso - e specchiarsi con le reali conseguenze dannose delle proprie azioni: è la mediazione penale.

 

La prospettiva della riparativa evidenzia aspetti ed argomenti della Giustizia che spesso restano sullo sfondo. Ed introduce approcci che si estendono oltre gli ambiti giudiziari e sono validi per tutti i conflitti e tutte le crisi relazionali dei rapporti personali e sociali.

 

Il conflitto con la leggeil conflitto  con l’altro non è sempre né totalmente  risolvibile con le logiche dell’aggiudicazione della ragione o del torto con l’individuazione  del reo o con l’irrogazione della pena. Peraltro nelle relazioni umane giusto e ingiusto, reità ed innocenza non sono così distinte e contrapposte si confondono, si sovrappongono si capovolgono: la verità propria si scontra con la verità altrui ed i confini non sono così marcati anzi spesso sono sfumati, confusi, nascosti. Inoltre il dolore, la rabbia il risentimento e tutte gli aspetti emotivi derivanti dal conflitto non vengono trattati del giudizio tradizionale.

 

Da uomini pacifici e onesti si è illusi che si è immuni dalle logiche della conflittualità  apparentemente giudiziarie limitate ai soli operatori della giustizia – a parte che  ben potrebbe accadere indipendentemente da noi di entrarne nel circuito !! e di aver a che fare con il processo e con le sue logiche – ma in realtà  il conflitto e la sua distruttività attraversa tutte le relazioni personali e sociali e quindi la vita quotidiana di ciascuno; e così cade l’idea che la materia non ci riguarda, al contrario, diventa per ciascuno  affar proprio[7].

 

La giustizia riparativa è  una prospettiva di giustizia giudiziaria ma anche dei rapporti e delle relazioni - che ne valorizza il carattere umanistico – è  una concreta “cultura”, una “filosofia” idonea e valida per ogni conflitto personale e sociale. 

 

La Giustizia riparativa perciò  parla di ciascuno ed a ciascuno: “mutato nomine haec de te fabula narratur” ossia“cambiato il nome è di te che si parla in questa favola” (Orazio satire 1,1,69-70)

 

 

 




[1] “Su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace.  Così la Mishnah (avot I,189), che commenta:  le tre cose sono in realtà una sola: la giustizia. Infatti, appoggiandosi la giustizia sulla verità segue la pace.” G.Zagrebelsky L’idea di giustizia e l’esperienza di giustizia in CM Martini Le Cattedre dei non credenti Milano 2015 pg. 1159

[2] “La giustizia è la virtù che si esprime nell’impegno di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno dandogli ciò che gli spetta secondo la ragione e la legge. Per questo il tema della giustizia è vasto come il mondo: tocca tutti i rapporti interpersonali e anche tutti i problemi della vita collettiva e delle relazioni internazionali.”[2] CM Martini sulla Giustizia Milano 1999 pg. 15…ma “Oggi la giustizia è intesa spesso come equità nello scambio sociale, non invece come rettitudine interiore dell’uomo, come virtù”. Pg. 23 

[3] “ora però facciamo attenzione alle parole perché esse, soprattutto quanto sono antiche, racchiudono un messaggio prezioso. Lo riconosceva anche Wittgenstein: “Quanto più una parola è vecchia, tanto più va a fondo”” V Mancuso Il coraggio e la paura Milano 2020 pg. 15

[4] Per Platone la virtù della giustizia sta al secondo posto dopo la saggezza. Per Aristotele, invece,  la giustizia è la virtù per  eccellenza  (vi è dedicato un intero capitolo Etica Nicomachea) che anzi comprende ogni virtù (la saggezza rientra nelle virtù dell’anima razionale…mentre la giustizia tra quelle dell’anima irrazionale).  La Giustizia – per la Chiesa - fa parte delle quattro  virtù cardinali – insieme a prudenza,   fortezza temperanza – ma “ se uno ama la giustizia, le virtù sono frutto delle sue fatiche.” (Sap.8,7).

 

[5] Voce giustizia in www.treccani.it/vocabolario

[6] Per l’origine del nome e la questione definitoria vd G.Mannozzi, GA Lodigiani La giustizia riparativa Torino 2017 pg. 73 e seg.ti

[7] P.Calamandrei Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria in P.Calamandrei Raccolta Opere giuridiche X Roma ed.2019 pg 221