Per il licenziamento economico ingiustificato ora c’è il reintegro: la Consulta ha dichiarato in costituzionale sul punto la modifica dell’art.18 Statuto lavoratori della legge Fornero.

 

E’ stata pubblicata il 1 aprile 2021 la sentenza della Consulta n. 59  che assesta altro colpo alla riforma Fornero dell’art.18 Statuto dei Lavoratori.

 

Il giudice del lavoro di Ravenna e la Corte costituzionale – giudice relatore Sciarra – sono binomio che – di nuovo – ampliano varchi e scenari alla tutela del lavoratore.

Già con la sentenza 178 del 2015 – proprio il Giudice Sciarra – su giudizio promosso in via incidentale sempre dal giudice del lavoro di  Ravenna - aveva innovato la giurisprudenza della stessa Consulta circa il blocco contrattuale nel pubblico impiego dichiarando  illegittima la proroga ulteriore in violazione art.39 Costituzione sulla libertà sindacale.[1]

 

Con la recente sentenza 59 è stata dichiarata incostituzionale la modifica ad opera della  legge Fornero (legge 92 del 2012) dell’art. 18 statuto lavoratori (settimo comma) in punto di reintegra nel posto di lavoro del dipendente a seguito di licenziamento economico ingiustificato.

 

I contratti a tutele crescenti introdotti dalla Fornero avevano previsto diverso trattamento per i licenziamenti disciplinari rispetto a quelli economici quando sia accertato dal giudice l’insussistenza del fatto su cui il licenziamento si fonda.

 

Infatti per i licenziamenti disciplinari la legge ha mantenuto il regime preesistente dell’art. 18 statuto lavoratori  ossia la reintegrazione nel posto di lavoro per il lavoratore;   invece per i licenziamenti economici è stata prevista la scelta - ad opera del giudice - tra reintegra e corresponsione di un’indennità nella misura prevista dalla legge Fornero.

Con tale distinzione: 

“Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego» anche mediante

l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative

controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge citata).

All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015. A decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele.

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti

occupati, si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum). L’importo minimo, invalicabile, è di cinque mensilità.

Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del danno patito nel periodo tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità sostitutiva, che già risolve il rapporto di lavoro.

L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede, inoltre, una tutela

reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce

l’applicazione ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia pure in diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti.

La tutela reintegratoria attenuata, invocata nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni (l’aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum). Anche in questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo,

allorché il giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti intimati senza giustificazione «per

motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di

«manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

 

Ma tale differente tutela  del lavoratore tra le due ipotesi di licenziamento – disciplinare ed economico – nell’ipotesi del settimo comma art. 18 Stat. Lavoratori è stata dichiarata incostituzionale per violazione art. 3 Costituzione. 

 

Il giudice di Ravenna “ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 41, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), «nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. [giustificato motivooggettivo], “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al 4° comma dell’art. 18 (reintegra)».

 


Ebbene tale aspetto dell’art. 18 Stat. Lavoratori è stato dichiarato incostituzionale:

 

“ Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e

applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente»

(sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24

della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi.”

 

Tale discrimen trattamentale  è peraltro viziato anche da irragionevolezza  perché non sono previsti parametri certi per il giudice al fine della determinazione proprio rimedi idonei a garantire la compensazione al lavoratore licenziato.

 

11.– Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò

altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.

Anche da questo punto di vista, si ravvisa l’irragionevolezza censurata dal Tribunale di Ravenna.

12.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo

periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati dal rimettente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20

maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

 

Lattari Pasquale

 

 



[1] A seguito della partecipazione a tale giudizio il volume Breviario di diritto sindacale dopo la sentenza della Corte Costituionale n. 178 del 2015(vd https://pasqualelattari.blogspot.com/p/biografia.html  e https://curciostore.com/libreria/breviario-di-diritto-sindacale/)  ad evidenziare  l’importanza della decisione in ambito di diritto sindacale nel pubblico impiego.